La peste manzoniana del 1630

La peste manzoniana del 1630

Nel 1630 la penisola italiana era divisa in tanti Stati e staterelli, ma la peste bubbonica introdotta dai Lanzichenecchi nel 1629, alla fine del 1633, aveva invaso quasi tutti i territori del ducato di Milano e persino della Svizzera.

Poi dilagò in tutta la Lombardia, Milano, poi in Piemonte, Savoia, e nel Veneto, Venezia, per riversarsi in Emilia, Bologna, e poi passare in Toscana, Firenze, includendo il Granducato di Toscana, e repubblica di Lucca.

Insomma la peste fondamentalmente imperò nel lato Nord e nel Centro della penisola.

Il Manzoni nel suo romanzo storico I Promesi Sposi e Storia della colonna infame aggiunse una grossa mano al principale contributo degli storici, cioè di due medici di allora, A. Tadino e G. Ripamonti, nel descrivere la tragica e pestifera situazione di quegli anni.

Si calcola che tra il 1629 e 1633 siano morte complessivamente 1 milione e 100 persone.

Nel Veneto, nel 1630, la peste fu particolarmente aggressiva: morirono 150.000 persone tra  luglio e ottobre, cioè il 40% della popolazione. Nella città di Venezia nel novembre dello stesso anno, ci furono 14.465 morti. Giambattista Tiepolo dipinse il famoso e drammatico quadro con scene di disperazione tra cadaveri abbandonati. La peste fu sconfitta nel 21 novembre 1631.

A Milano la cittadinanza cadeva sotto la pestilenza a grappoli e i monatti erano i becchini del servizio pubblico che erano destinati a raccoglier su carri i vari corpi delle vittime che presentavano sintomi di peste. I monatti erano persone condannate a morte, carcerati, oppure persone guarite dal morbo e così immuni da esso.

Nel periodo di epidemia pestilenziale erano incaricati dai Comuni di trasportare nei Lazzaretti malati o i cadaveri. Di solito veniva garantita loro la libertà come compenso di un servizio che nessuno avrebbe voluto eseguire.

La necessità di togliere corpi infetti induceva le autorità a servirsi in fretta di questi personaggi ben descritti da Manzoni nel Romanzo.

Gli untori, temine che si usa anche oggi, seppur con ironia, erano presunti manigoldi che avrebbero diffuso il morbopestifero, spalmando in luoghi pubblici certi unguenti venefici. Gli untori sarebbero stati presenti nella grande peste nella città di Milano, non si sa pagati da chi, per svolgere la loro presunta azione omicida… Gridava la folla: dagli all’untore!

A Torino, nel 1630, il 2 Gennaio, un calzolaio venne colpito dalla peste. La città contava circa 25 000 abitanti e il Duca Carlo Emanuele I di Savoia emanò un editto con il quale si raccomandava ai commercianti di tenere il prezzo dei prodotti della terra il più basso possibile per via della miseria e della disperazione della gente che era, a causa del tempo atmosferico, colpita anche da nubifragi devastanti.

L’epidemia si diffuse rapidamente, coinvolgendo anche altri centri della provincia come Pinerolo ed estendendosi poi ai territori del cuneese. A Torino la situazione raggiunse il culmine della gravità con il sopraggiungere in seguito del caldo estivo che favorì la trasmissione del morbo.

La pestilenza apparve nel 1630 durante la guerra di successione di Mantova e del Monferrato, in cui si trovò coinvolta anche Venezia, tra le truppe asburgiche che accesero i primi focolai di peste. Guerra e fame esplosero e si mantennero sino al 7 aprile dello stesso anno con la Pace di Cherasco che decretò la fine della guerra. Si ristabilì un nuovo relativo equilibrio per la successione del Ducato di Mantova. Le guerre avevano costretto migliaia di persone ad abbandonare le loro case. I contadini delle campagne furono costretti a mendicare e a fuggire verso i maggiori centri abitati. Alla fine del 1631, venne imposto un rigoroso contenimento sanitario tra la popolazione torinese che divenne modello per il futuro che mirò a debellare anche parecchi episodi di sciacallaggio. La peste a quel punto era domata, dopo la morte di 8.000 persone: ci vollero quasi due secoli prima di raggiungere nuovamente al numero di abitanti precedente al 1630, quando appunto la popolazione era di 25.000 cittadini.

A Bologna, sempre agli inizi di Giugno, scoppiò la peste. Accadde in una famiglia di Trespiano. La casa dove abitavano fu sigillata, le suppellettili date alla fiamme, ma la peste ormai aveva continuato il suo perverso tragitto verso le città circostanti.  Nel giugno del 1630  la peste arrivò a Prato e Firenze, poi i primi di agosto a Pisa e Livorno.

La peste infuriò a Firenze e Pisa a Livorno, furono collegate attraverso il fiume Arno che permetteva di trasportare grano durante l’emergenza sanitaria. Si doveva dar da mangiare alla popolazione toscana devastata dalla peste.

I navicellai, conduttori di imbarcazioni fluviali, attraverso l’Arno e la rete dei suoi affluenti collegavano i porti principali della regione.

L’estate di quell’anno fu molto calda e certo l’alta temperatura non aiutò a debellare la peste perché le pulci evidentemente proliferarono. Le pulci, che sono il serbatoio della peste,  diffusero ancor di più la malattia. Nemmeno l’autunno, pur rinfrescando l’aria, ottenne un rallentamento della peste nonostante alcune illusioni.

Nel mese d’Ottobre la peste invase Empoli. In Dicembre i sanrocchini, curatori degli appestati dal santo San Rocco, costruirono barelle a gondola ricoperte di tessuti impermeabili, poi i mantelli lunghi chiamati ferraioli che erano indossati dai portatori e dai sacerdoti che andavano a seppellire i morti. Le guardie di sanità vennero poste alle porte della città, nei punti di snodo viario e sui passi montani.

Ci fu la proibizione di mercati e fiere e attenta vigilanza; furono nominati vari super-commissari con incarichi vari di igiene pubblica; l’istituzione dei Lazzaretti, ove venivano isolati gli infettati.

Le persone con palesi sintomi del morbo venivano trasportate rapidamente nei lazzaretti, che sorsero assai numerosi fuori dalle città.

La sepoltura dei morti avveniva in fosse comuni, coperte poi di calce.

Furono bruciati i vestiti infetti e anche i mobili usati dagli appestati. I medici chirurghi dovevano decidere per il meglio sulla sorte degli appestati.

Le quarantene duravano molti giorni al fine di isolare efficacemente l’epidemia e debellarla. Anche allora si cercava il paziente numero uno.

Gli animali domestici venuti a contatto dovevano essere uccisi e bruciati.

Le stanze delle abitazioni dove era stato un contagiato dovevano essere fumigate con profumi e zolfo.

I familiari dei contagiati ricevevano il cibo dai parenti dalle finestre.

Così recitavano le “Istruzioni” inviate da Firenze già nell’agosto 1630 ai vari Vicari del territorio.

Alle chiese veniva impedita la tradizionale sepoltura che appunto veniva sostituita dalla fossa comune oppure in cimiteri di campagna in terra del proprietario.

L’alimentazione consigliata e prescritta dai medici riguardava: noci, fichi secchi e ruta.

I malati dovevano bere ogni mattina un bicchiere di cinque once, o di sugo di cicerbita, o di capraggine alquanto calda, al fine di far sudare il corpo per estromettere il veleno del morbo sudando… Poi dovevano mangiare carne, mai bere vino, ma solo acqua cotta con midolla di pane, e pochi curiandoli in essa.

Nella primavera del 1631 il contagio, con le temperature in aumento dopo il calo invernale, riprese indisturbato, raggiungendo la maggior parte dei centri posti lungo l’Arno e riattivandosi anche nella città di Pisa, in cui le punte di mortalità più acuta si registrarono tra ottobre e novembre 1630 con una media di 25 morti al giorno.

Nonostante tutte le proibizioni, il blocco relativo di merci ed animali interrotte in quel periodo, anche per via fluviale, la peste continuava a mietere vittime.

Si pensò infatti che i i navicellai avessero potuto contribuire, seppur poco, alla diffusione del morbo lungo le località a fianco dell’Arno.

Sembrava infatti che nel retroterra, lontano dal fiume, la peste stesse cominciando a perdere quell’aggressività, quella sua virulenza di sempre.

Nel Settembre e Ottobre del 1631 infatti la fase acuta dell’emergenza, in Toscana di Giugno-Agosto, sembrava lentamente si riducesse.

Si ricominciò a riattivare la rete dei commerci per tornare ad una auspicatissima normalità. La peste in Toscana dell’autunno del 1631 si ripresentò altre volte con piccoli focolai, ma non raggiunse più i livelli di virulenza del 1630.

Complessivamente non è possibile dichiarare storicamente il numero dei morti in Toscana, data l’assenza di rilevazioni sistematiche.

Forse si può ipotizzare che la mortalità variò molto da città a villaggio, in base alla densità di popolazione, mobilità delle persone, vicinanza a vie di comunicazione,  ma con percentuali che variarono dal 40% al 20% di decessi sul totale della popolazione.

La gente più povera disorientata nelle informazioni, e anche per le scarse cure, pagò maggiormente il costo di vite rispetto alle grandi città.

Certo che la peste del 600 portò, rispetto al passato del primo medioevo, un progresso nelle cure. Per quanto non si conoscesse quel che oggi conosciamo, e cioè che è causata da batterio Yersinia pestis, si era intuito la forza maligna del contagio.

Si conosceva quindi l’arma difensiva e curatrice che consiste nella distanza sociale, anche se veniva usata come si poteva nel 600. Non esistevano i mezzi di comunicazione che consentissero aggiornamenti come avviene oggi.

Si usava però il fuoco per sterilizzare, si usava seppellire le vittime infette lontano da i centri urbani, si isolavano nelle case i contagiati che erano senza sintomi.

Esistevano i Lazzaretti. Si bolliva l’acqua, si evitava di bere alcol.

Esisteva un capo commissario come oggi.

Si usava coprire il volto con una maschera (invece delle mascherina) dal naso lungo e adunco e occhialoni che conferivano un aspetto spaventoso.

Si toccavano le vesti degli ammalati con lunghi bastoni. Si operavano i bubboni con bisturi lunghi.

Nel 600 i medici erano lontano dalle cure delle quali oggi ci possiamo avvalere, in primis gli antibiotici e poi gli strumenti medicali di perfezione per l’ossigenazione e i potenti medicamenti anti-infiammatori potevano essere usati. Molte vite sarebbero state salvate.

L’epidemia, contando anche la coda del morbo, durò circa 4 anni dal 1629-1633.

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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