Nomofobia

Nomofobia

Significa, in inglese, no mobile phone phobia, che in italiano vuol dire fobia di non essere connessi con il cellulare.

Molti studi sull’adolescenza dimostrano che otto ragazzi su dieci soffrono di questa angoscia.

Si sentono come se in un’isola non potessero comunicare con nessuno.

Il telefono cellulare potrebbe non avere segnale, oppure si sta scaricando o è già scarico e per qualche ragione non funziona o non si può ricaricare.

Non c’è rete, non si è connessi.

Alcuni ragazzi si sentono soli ed abbandonati, altri temono di perdere comunicazioni importanti senza le quali si sentono disorientati. Alcuni temono di perdere i contatti importanti, di non esistere quasi più perché si è spariti, come in prigione.

Il polacco sociologo Z. Bauman diceva nel 2016: E della paura della solitudine traggono vantaggio i social network.

Molti giovani se perdono lo strumento di contatto con gli altri, perdono anche parte della loro personalità, nel senso di visibilità di Sé.

Non essere visti, essere ignorati è una grande paura dei giovanissimi.

Perché?

Il senso di Sé era costituito un tempo, non molto tempo fa, da una certa fiducia in se stessi.

Si poteva contare sul fatto che non trovare una persona, un amico o amica, significasse soltanto che la stessa era impegnata in qualche faccenda che non poteva essere immaginata.

Oggi si osserva spesso che la mancanza di contatto immediato spaventa e fa temere il peggio per la persona ricercata.

Anche le mamme che hanno regalato i telefonini ai figli per poterli tenere meglio sotto controllo, si angosciano se i figli sfuggono a tale controllo spegnendo gli stessi telefoni in alcune particolari circostanze.

Il telefonino serve ai giovani, e non solo a loro, per telefonare ma per tenere sotto controllo molte informazioni di varia natura sociale, e perderle significa essere un passo indietro rispetto ai coetanei, significa inferiorità.

Negli Stati Uniti si denomina questo particolare atteggiamento psicologico: fear of missing out.

Certo la solitudine, terrore dell’umanità, è sempre il nucleo basilare di molte paure e fobie che derivano dalla impossibilità di controllare qualcosa che trasforma con facilità le persone più deboli e dipendenti da qualunque situazione.

Scrivo queste considerazioni, ma la statistica delle ricerche fa supporre che riguardi una minoranza di giovani, almeno lo speriamo!

Tuttavia, ciò che scoraggia un poco consiste nel fatto che, ricercando a livello sociale con metodo statistico sul piano psicologico, emergono continuamente nuove compulsioni, nuove dipendenze.

Senza contare gli stupefacenti, contiamo il bungee jumping (buttarsi nel vuoto dall’alto legati a una corda elastica),  la disposofobia (sepellirmi in casa perché non posso buttar via nulla), lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo, i giochi elettronici, la porno dipendenza al computer, sport massimamente estremi e rischiosi come il parapendio, il volo umano con costume da uccello, il canyoning (molto spesso organizzato in montagne alte alle due estremità di una valle o di due montagne: si crea così la possibilità di un volo nel vuoto).

Non manca il saltare in corsa sul tetto di un treno proveniente dall’altro verso della strada ferrata.

Insomma: più rischio la vita, più esisto? Oppure più rischio, più le emozioni che attivo in me mi fanno sentire che il rischio offre un senso alla mia vita quando sopravvivo?

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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E tu come la pensi? Scrivimi un commento o inviami una domanda all'indirizzo roberto.pani@unibo.it...

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