Sindrome da capanna

Sindrome da capanna

Già il 4 e 8 Maggio avevo riportato in questo blog due post scritti riguardo all’angoscia di stare a casa e alla paura di uscire di casa dopo la quarantena durata per molta gente sino al 15 Giugno, ma forse per molta altra ancora in essere.

Nei Paesi del Nord Europa circola tra gli psicologi e psichiatri l’espressione di sindrome da capanna.

Si tratta di un insieme di sintomi che si racchiudono un quadro clinico quasi sempre non severo.

Cosa richiama questo quadro psicologicamente?

Un comportamento ritroso, titubante, insicuro che induce la persona a racchiudersi e a restringersi in un luogo piccolo, chiuso e virtualmente protetto.

La capanna infatti rappresenta un simbolo di protezione.

Già prima del 900 durante la colonizzazione del territorio del centro-sud/ovest degli Stati Uniti veniva evocata l’idea della capanna come uno spazio protettivo, anche se realmente non poteva funzionare completamente da luogo sicuro.

Il clima aggressivo dei vari territori, per esempio desertici, oppure il banditismo, non rispettava che i confini di una capanna costruita su una carovana e poi estesa per creare ulteriore spazio. Alloggiavano in essa famiglie con madri e bambini piccoli che non potevano esporsi ai pericoli sia della natura, sia dell’uomo, mentre il colono si occupava durante il viaggio verso l’eldorado di procacciare cibo.

Si costruivano in seguito laddove era possibile anche capanne con alcuni comfort con l’intento di abitare una località per più tempo sino a che molti coloni, alla ricerca di metalli preziosi nelle varie miniere fondavano dei e propri città-villaggi.

Questi villaggi che erano costituti da fabbricati in legno e fragili capanne. Da tempo riscoperti, queste centri abitati si chiamano: Gost Town e sono oggetto di frequenti visite turistiche.

La capanna nella fantasia si accompagna ad un cluster, un insieme di emozioni non decodificabili che portano le persone a sperimentare una sorta di letargia e passività.

Freud avrebbe parlato di regressione a stati precedenti dello sviluppo adulto, a stati infantili quando la paura domina i bambini per mancanza di effettiva conoscenza dei pericoli del mondo.

Non si tratta di regressione, ma di una sorta di condizionamento mentale dovuta al lungo lockdown che ha portato la mente di adulti, anziani e bambini nei mesi precedenti a ristabilire i punti di riferimento in modo differente da quello quotidiano di sempre, prima del contenimento abitativo.

Jan Plamper, antropologo in Storia delle emozioni (ed. Il Mulino) descrive le emozioni non decodificabili come emozioni virgolettate.

Le persone che, invece di uscire di casa dopo un periodo di repressione molesta alla ricerca della vita quotidiana e del sole, sono intimidite ricercano scudi protettivi come un guscio dentro cui ripararsi.

La psicoanalista Margaret Malher usò negli anni 70 la metafora dell’hatching, cioè della rottura del guscio da parte del pulcino nell’atto della nascita.

Nel nostro caso, non ci riferiamo ovviamente di nascita biologica, ma soltanto psichica.

Il pulcino come l’essere umano a livello psichico, aiutato dalla cova materna, deve anche essere munito di un beccuccio abbastanza robusto per poter rompere il guscio e nascere.

In altre parole, la vita psichica per l’essere umano richiede uno sforzo e adeguamento alle difficoltà della realtà. Si tratta di adattarsi al sistema complesso della vita fatto di tante leggi, sia naturali, sia sociali.

Se la natura penalizza il beccuccio del pulcino, egli rischia di non nascere.

Ovviamente nel caso di chi stenta a rientrare nel mondo reale fuori casa, si tratta di una ritardata rinascita e non di nascere.

Occorre incoraggiamento e gradualità per ritornare alla vita di sempre.

Più difficile sembra riportare alla vita di sempre gli anziani che, pur in buona salute, hanno sentito gli arresti domiciliari non come una protezione ma come una prigione dalla quale non sarebbe più usciti.

Per alcuni anziani il contenimento forzato sembra essere stato percepito come un equivalente di una morte preannunciata perché la pericolosa malattia avrebbe alloggiato al di fuori della porta di casa come una minaccia perenne di fine-vita.

Le persone di mezza età, forse un po’ avvilite da eventi della loro vita e alcuni tra loro anche depresse, incontrano meno difficoltà a ritornare fuori, anche se i tempi di oggi non sembrano ancora rassicuranti. Il virus in effetti circola ancora attorno a noi, ma in particolare imperversa a tutt’oggi nel globo.

I bambini  incoraggiati impiegano poco tempo a riadattarsi spinti dalla innata curiosità e dagli stimoli della famiglia.

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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E tu come la pensi? Scrivimi un commento o inviami una domanda all'indirizzo roberto.pani@unibo.it...

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