Al tempo del Covid-19 lo Smart working funziona sempre?

Al tempo del Covid-19 lo Smart working funziona sempre?

Non potendo uscire da casa il lavoro sarebbe in panne, ma per fortuna da tempo è possibile usare metodi remoti, cioè a distanza, considerando inoltre che sono graditi da oltre l’80% dalla gente che lavora che ha una media da circa 20 a 50 anni.

Molti professionisti, in primis giornalisti e scrittori, ma di frequente anche altre attività consentono, parzialmente, di non recarsi sempre in sede di lavoro, ma di usare skype, o altro, per comunicare.

ll lavoro flessibile implica saper comunicare al capo le proprie sensazioni di difficoltà rispetto a logiche che anche esso non conosce, quindi bisogna aver emotivamente una certa sicurezza per poterlo fare.

La non timidezza e la padronanza degli strumenti sono essenziali, ma tale comportamento disinvolto non è facile da attuare durante i primi tempi.

Nelle video-comunicazioni non si può agire come robot, cioè la mimica del viso, il tono della voce, la gestualità, le frasi non stereotipate per non essere fraintesi sono importanti. Tecnicamente gli impianti per telecomunicazioni debbono essere funzionanti in maniera ottimale per non innervosirsi o vedere bene i colleghi e le loro espressioni del viso, ma sopratutto per non essere fraintesi.  I vari e frequenti disagi vanno comunicati e non vanno troppo controllati per non acuire i possibili problemi successivi.

Consiglio di prendersi una pausa, tipo un caffè, anche se purtroppo si è sempre in casa propria, per non stressarsi troppo sin dall’inizio del lavoro telematico.

Solitudine? E’ possibile! Stare sempre in casa è necessario in questi tempi di coprifuoco,  ma la socialità tra persone fisiche è importante, non lo si può negare.

Alcune telefonate con persone affettuose o un po’ di musica aiutano a distrarre la mente richiamando momenti lieti.

Le comunicazioni scolastiche e universitarie a distanza che si svolgono in questi tempi nelle Scuole e Università sembrano funzionare bene e essere dagli studenti interessanti e in molti casi divertenti.

Avendo avuto varie esperienze in passato negli Usa, dove è normale da molti anni, in molte occasioni usare il telefono, e oggi skype, ha indotto qualche collega psicoterapeuta a scrivermi e qualcuno anche mi ha telefonato: tutti per chiedermi come mai alcuni pazienti non si sono adattati a lavorare con skype o per telefono.

Ho pensato ai varie possibili motivazioni.

Il setting (ambiente, atmosfera) psicoterapeutico riservato agli adulti di per sé è semplice: di solito nello studio c’è una libreria, due poltrone, poste ad angolo vis a vis, qualche tappeto, qualche quadro e un dormier, o lungo divano o sofà, il cosi detto cauch, riservato a chi pratica psicoterapia psicoanalitica o psicoanalisi. Dietro al divano, o a fianco, c’è una scrivania e una poltrona.

Tale postazioni tendono a rimanere sempre stabili.

La psicoterapia infatti serve per cambiare, ma il setting deve restare il medesimo, come si spera lo siano gli argini di un fiume, la cui acqua scorre al suo interno più o meno velocemente.

Chiedere a un paziente di lavorare e usare per la psicoterapia un altro setting (ambiente, situazione), immagino possa essere un piccolo o anche grande trauma, naturalmente vissuto nel suo mondo interiore, inconscio.

Perché?

In primis, il setting (la situazione) cambia e non dovrebbe cambiare, come gli argini di un fiume.

Inoltre si tratta di usare mezzi a distanza e tecnologici, freddi, quali skype o telefono, se normalmente si usava il lettino-divano.

Il paziente, in base al suo stato psichico, può sentirsi inconsciamente tradito, pur comprendendo le ragioni sul piano di realtà esterna in virtù della quale lo psicoterapeuta lo propone al fine di non interrompere il lavoro con il suo paziente.

Il setting ha una funzione terapeutica, perché esercita sul paziente un significativo contenimento, rappresenta una casa-materna accogliente e protettiva, e testimonia l’esistenza gradita del paziente in questa.

Certo che il contenimento dovrebbe essere espresso anche dagli stessi messaggi che lo psicoterapeuta invia durante la cura.

Se in verità il paziente in quel momento della cura non sta sperimentando un dramma in via di elaborazione e la psicoterapia procede bene, accetterà con flessibilità il cambiamento momentaneo di setting, sia per compiacere lo psicoterapeuta, sia per non interrompere il suo trattamento.

Penso tuttavia che si possano incontrare altre difficoltà con altri pazienti in base anche a condizionamenti culturali.

Usare il telefono per una psicoterapia può esser vissuto con svilimento, cioè come una telefonata dal bar, una telefonata che serve per informare solo di contenuti da pronto soccorso, da telefono amico e non svolta da una postazione che prepara a una seduta con tutti i crismi del caso.

Le resistenze di alcuni pazienti, che si traducono in scarse motivazioni alla psicoterapia, anche per scarsa introspezione o per un pensiero troppo concreto, fanno desistere il paziente verso la cura quando il setting in apparenza suona loro come svalorizzato.

Inoltre ci possono essere per alcuni pazienti problemi logistici e concreti. Per esempio ci sono pazienti che non vivono in alloggi con più stanze e telefonare o essere di fronte a un computer significa non trovare la postazione intima per comunicare a distanza.

Auguro ai colleghi e loro pazienti che sono all’arresto domiciliare di poter riprendere la loro normale attività un po’ sacrificata. La necessità fa l’uomo virtuoso, considerando che è in gioco un periodo epocale della nostra vita che è ancora a rischio.

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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E tu come la pensi? Scrivimi un commento o inviami una domanda all'indirizzo roberto.pani@unibo.it...

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