Totò, 47 morto che parla: essere avari

Totò, 47 morto che parla: essere avari

Si tratta di un Totò, film classico del 1950 diretto da C. L. Bragaglia, un film comico che parla di una commedia che molti giovani dovrebbero vedere, anche se l’ilarità di quegli anni sembra oggi superata.

Le persone avare condividono alcune caratteristiche con gli spilorci e i taccagni: questi ultimi non amano prestare le proprie cose, non possono spendere il loro denaro se non per qualcosa di assolutamente indispensabile e sono molto possessivi.

Ci sono persone assai disponibili nel prestare qualunque cosa possiedano e altre persone che non si sentono di prestare nulla.

Queste ultime temono che i loro oggetti, una volta prestati non siano più restituiti, oppure che vengano danneggiati, sciupati in qualche modo, perché i taccagni immaginano che una volta che i loro oggetti sono entrati in loro possesso, diventino per così dire animati cioè battezzati sotto il loro nome e propria anima.

Da studenti, si possono ricordare i libri che non vengono prestati da un certo compagno di scuola, senza un’apparente ragione.

Gli oggetti stessi conquistano una fisionomia interiore: come una madre non vedrebbe di buon occhio prestare il proprio neonato a qualcuno che pur conosce, ma non abbastanza da potersi fidare, e quindi soffre di gelosia nel vedere la propria creatura nelle mani di un’altra persona, così i possessori si rifiutano totalmente di privarsi del loro oggetto, anche solo per un attimo. Ti guardano male soltanto se l’amico amichevolmente si avvicina e tocca il tuo accendino per accendersi una sigaretta che ti ha anche precedentemente offerto.

Cosa accomuna i taccagni con gli avari?

Si tratta dell’organizzazione mentale, che non riguarda il bisogno di possesso garantito dagli oggetti posseduti.

Il bisogno di controllare è in primo piano. Come ho detto, separarsi dall’anima, che è in noi, sarebbe uno strazio!

Essere avari allo stesso modo significa mantenere in modo inalterato ciò che è proprio. L’avarizia sembra l’opposto dell’avidità, anche se Dante nel 7° canto dell’Inferno ritiene che l’un peccato nasconda l’altro. Forse il Maestro non ha del tutto torto, nel senso che chi è avaro è anche un po’avido.

Come se l’avaro dicesse, vorrei avere tutto, ma non posso e allora per lo meno non ti offro proprio niente, mi tengo tutto e non spreco niente: quel che è mio è mio, non lo divido con nessuno. Freud, ritiene che l’avarizia derivi dal bisogno psico-biologico di trattenere in modo ostinato le proprie cose del mondo interno, le feci.

Alcune esperienze familiari possono influenzare negativamente l’avaro, nel senso che: se il bambino assiste ad una certa insicurezza negli atteggiamenti e instabilità della madre o del padre, potrebbe coltivare in sé durante la crescita un bisogno di conservare, che con il tempo diventa un comportamento ossessivo e compulsivo nell’esasperato bisogno di trattenere.

Infatti l’avaro tende a sospettare di chi si dimostra disinvolto con il denaro o con chi esibisce una certa spavalda generosità nell’offrire in molte circostanze, ad esempio al bar e al ristorante, oppure al cinema. 

Certe persone avare smettono di frequentare altre persone che mostrano nel loro atteggiamento troppa generosità.

E’ come se gli avari dicessero tra sé e sé: la prossima volta dovrebbe toccare a me (pagare, offrire).

Questa situazione di controllo esasperato sulle proprie cose, sull’ossessivo possesso e conseguente gelosia degli oggetti, permette alle persone iperconservanti e iperpossessive una sorte di equilibrio omeostatico che funziona seppur con una certa sofferenza.

Certo gli avari non sono felici perché sanno in fondo a se stessi di essere imprigionati da un dover essere, da una coazione a ripetere, da un doversi privare anche di alcune relazioni affettive.

Sì perché anche negli affetti temono di darsi troppo al partner.

Il proprio tempo, il proprio corpo è inevitabilmente è disponibile in maniera misurata per l’altro, come se il partner ne potesse approfittare e consumarlo in qualche modo di qualcosa.

L’avaro si offre con cautela con sospettosità e quasi mai totalmente teme di essere strumentalizzato.

Purtroppo non può confessare certe sue non consapevoli angosce.

Egli funziona in quel modo e non conosce il perché!

Certo che se trovasse un partner che è in grado di ascoltarlo e aiutarlo a raccontarsi al fine di riconoscere le basi insicure che portano alla attuale prigionìa, alcuni blocchi di sfiducia potrebbero lentamente scioglersi.

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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