Danni psichici per protratta prigionia

Danni psichici per protratta prigionia

I danni psicologici sono potenzialmente tanti: sia i bambini più piccoli, sia i ragazzi adolescenti sono costretti a seguire le lezioni scolastiche da casa.

Molto spesso le case sono piccole e lo spazio per ascoltare e interagire con un video-schermo richiedono silenzio e la stanza a disposizione: e se ci sono fratelli che reclamano altrettanto? Quanti computer sono necessari in quella famiglia?

Il disagio si sente anche perché l’ambiente casalingo, specie in piccoli appartamenti, include l’odore di cibo, vettovaglie dappertutto, familiari che circolando per casa non favoriscono l’attenzione già faticosa.

Insomma per seguire le lezioni scolastiche nel tempo prolungato ci vuole l’ambiente giusto.

I primi tempi di prigionia a casa potevano essere vissuti come un diversivo, una fuga divertente e autorizzata dalla scuola. Ma dopo mesi, la realtà dell’imposizione assume una dimensione fantasmatica surreale, pericolosa e per i più piccoli anche persecutoria.

Gli adolescenti e più grandi hanno bisogno di socializzare e così la scuola si rivela l’adeguata risposta di un ambiente che, attraverso disciplina, contatto sociale, cultura e elaborazione civica, permette una utile mediazione tra fantasia e realtà.

La sottrazione di un tale risposta genera un ulteriore aggravamento del senso di vuoto e smarrimento, vissuti che già devastano molti giovani. Non sono rari disturbi autolesivi per lenire l’angoscia del nulla, disturbi antisociali come devastazioni di aree pubbliche e private con graffiti vandalici, ecc. Per costruire un senso di appartenenza e di identità in giovanissima età occorre il contatto sensoriale con gli altri, depositare negli amici le proprie confidenze e vedere le reazioni ed il ritorno di queste, sperimentare cosa significa essere visti in contatto diretto con gli altri.

Bisogna riconoscere che, oltre la pandemia virale, esiste una pandemia economica devastante, ma anche una pandemia psichica da non sottovalutare.

I giovani stanno vivendo il secondo anno in un mondo surreale perché il virus è invisibile e genera angosce per un nemico che non si vede ma che può essere anche mortale. Mi viene in mente un sogno di un paziente che si sente inserito come personaggio nel romanzo di Jack Finney dal quale fu prodotto un film The Invasion of the Body Snatchers, l’Invasione degli ultra- corpi del 1956 del regista di Don Siegel. Gli extra-terresti invadevano la terra e cercavano di entrare nei corpi degli umani: mentre gli umani dormivano un corpo alieno uguale a quello originale nasceva all’interno di un grande bacello che andava a sostituirsi a quello umano. Il mio paziente fantasticava di essere vittima del virus come nel romanzo degli alieni.

Ma certe difficoltà colpiscono anche gli adulti:

Riassumo ora 4 casi clinici che ho ricavato durante il Servizio Nazionale volontario svolto via internet, durante i mesi di Marzo-Aprile-Maggio-Giugno, situazioni che esemplificano ciò che il virus perturbante ha psichicamente messo in rilievo.

Caso 1: La sindrome del sequestro

Stefania è una ragazza di 24 anni. E’ studentessa universitaria a Rende, Cosenza: la giovane donna era stata adottata dai genitori all’età di tre anni, e mi ha raccontato che durante il primo mese di lockdown si sentiva sequestrata e costretta in un rifugio (la casa stessa dei genitori) come quando una o più persone sono rapite e nascoste in un posto segreto e introvabile. Lei si sentiva sepolta viva. Aveva paura di uscire di casa persino per portare il cane per la toilette giornaliera.

L’angoscia che emergeva riguardava la minaccia per la propria vita e il senso di isolamento. Nonostante vivesse con i suoi genitori ed il cane e fosse rassicurata circa la sua salute, a causa del virus sperimentava un senso di abbandono con sintomi di panico e soffocamento. Stefania infatti mi raccontava sogni che contenevano un vissuto mortifero.

La ragazza percepiva le prescrizioni delle Autorità come una violenza esercitata su di lei. La paziente, con la quale ho avuto con google duo una video-seduta settimanale, in realtà si ribellava interiormente a un senso di svalutazione di Sé. La situazione era collegata al fatto che le sue storie sentimentali con i fidanzati la facevano sentire indegna. Naturalmente il collegamento con la sua adozione e cioè con il fatto di essere stata abbandonata dalla madre biologica pesava fortemente con il senso di rifiuto e di indegnità che era alla base del senso di Sé. Lei non era degna di essere amata e il virus era vissuto come un nemico che portava una punizione per una colpa originaria che non poteva essere mai espiata. Le sedute telematiche portarono ad un certo miglioramento dei sintomi se non altro per un effetto catartico che sono riuscito ad ottenere con Stefania.

Caso 2:  La sindrome della capanna

Come noto si tratta di un comportamento ritroso, titubante che induce la persona a rinchiudersi e a restringersi in un luogo piccolo, chiuso e virtualmente protetto. Spesso questo spazio protetto finisce per essere vissuto dagli stessi pazienti come oppressivo e soffocante.

La costrizione imposta dall’esterno di stare chiusi in casa, può indurre una sorta di reazione emotiva, forse anche di protesta.

In altre parole, queste persone rinunciano alla libertà reagendo in eccesso con un atto inconscio di negazione passiva assolutistica che si esprime come ribellione.

Ancora la fantasia inconscia della capanna risuona come un guscio che contiene il pulcino: chi ne soffre si comporta come se fosse anestetizzato e sperimenta un cluster, un insieme di emozioni non decodificabili e una sorta di letargia e di sonno continuo e persistente.

Si tratta forse di una regressione a stati infantili che inducono l’individuo a negare inconsciamente la realtà esterna.

Così Eleonora ragazza di 22 anni, studentessa all’università di Roma sperimentava il Virus, come un nemico che l’attendeva fuori dalla porta e che la costringeva a non mettere letteralmente il naso fuori casa: se si fosse esposta sarebbe stata contagiata. Questa inconscia motivazione alquanto esagerata, nascondeva una forte aggressività passiva espressa contendenza al ritiro da tutto ciò che implicava attività fisica e mentale, ma per mezzo di un comportamento passivo e letargico. Se non posso uscire, me ne starò a casa per sempre! La vita è concepita così da questi pazienti solo indoor.

Fu suo padre che mi telefonò per chiedere di aiutare la figlia che passava le giornate a letto, a mala pena mangiando qualcosa ogni giorno.

I primi tempi le video chiamate erano evitate ma dalla ragazza mi giungevano solo telefonate in ritardo con un tono seccato da parte sua, senza mai ringraziare del mio interessamento. Al contrario mi diceva che essendo le sedute gratuite la facevo sentire in difficoltà perché come suo padre, sua madre e anche la sorella maggiore tutto il giorno la scocciavano, facendole pesare ciò che facevano per lei. Lei voleva stare in pace solo con il suo mondo! In realtà quando, durante le settimane successive cominciò a prendere in considerazione le mie parole e il mio atteggiamento e cominciò a essere puntuale e a usare come mezzo di comunicazione sul cellulare  il video-duo: l’atteggiamento che si poteva notare si era trasformato nel suo opposto.

Il bisogno di dipendere e che veniva negato con il suo ritiro passivo nel suo letto come se questo rappresentasse una nicchia protettiva lontano dal mondo pericoloso, si manifestò anche nei miei confronti. La negazione della dipendenza si riferiva ad un bisogno arcaico di riconoscimento di Sé che forse non era stato nel vissuto della paziente mai completo.

Eleonora era diventata grande (adulta) e ed era stata costretta ad assumersi tante responsabilità non essendo pronta a gestirle. Si trattava del mondo universitario, ma anche della sua vita affettiva e di pensare alla sua femminilità.

Mi sembrava che la paziente domandasse alla madre e forse anche al padre che viveva in un altro appartamento, a livello assolutamente inconscio, di confermare in modo più deciso e convincente lo statuto psico-biologico di Sè. Eleonora percepiva in se stessa che la madre aveva presentificato la nascita di Eleonora e il suo primo sviluppo.  La madre aveva toccato il suo corpo, lo aveva manipolato, contenuto lungo il suo premuroso maternage. Poi aveva vista la bambina crescere, trasformarsi. Domandava alla madre di essere ancora legittimata nella sua debole identità ed era come se dovesse fornire quelle vitamine, sali-minerali-proteine che mancavano a un totale e convinto irrobustimento di Eleonora,tanto da permetterle di affrontare la vita nella posizione di adulta.

Caso 3: La sindrome del nido pieno

L’origine dell’espressione, nido pieno, si riferisce alla situazione nella quale la famiglia si accorge che, con il passar degli anni i figli sono diventati adolescenti e adulti, ma i ragazzi non decidono di organizzarsi in una nuova famiglia separandosi dai genitori. Questi giovani adulti permangono a tempo indeterminato nella famiglia d’origine. Tale convivenza senza tempo con i genitori genera nel padre e nella madre un tono remissivo e melanconico: si tratta di un senso di inadeguatezza  che i genitori traducono in un pensiero spesso non consapevole che così potrebbe suonare: se i nostri figli non sono indipendenti: noi non siamo stati in grado di farli crescere bene, quindi in qualche modo abbiamo fallito: inoltre noi genitori non riusciremo mai a godere una vita liberi dalla responsabilità verso i figli. Non potremo riprendere a fare viaggi, e concederci quello che tanto avevamo desiderato.

Con l’aumentare delle continue nuove esigenze dei figli adulti, lo spazio familiare diventa sempre più stretto. Il senso di saturazione della piccola comunità può diventare dominante e quindi ossessionante.

Con la pandemia e le costrizioni a causa della prigionia questa situazione si riproduce con tutti i membri familiari, sempre e tutti insieme non appassionatamente a casa.

Lo spazio individuale viene a mancare e il senso di compressione e di deprivazione in alcuni soggetti può dar luogo a sintomi somatici come dermatiti, disturbi allo stomaco e cefalee.

Nelle città certamente le persone di ceto elevato risentono molto meno di questi sintomi perché probabilmente vivono in spazi abitativi ampi e magari possono usufruire dei vantaggi che offrono i giardini privati. Per chi vive in piccoli paesi e in campagna la situazione è certamente migliore per via di uno spazio meno sotto controllo e quindi vissuto come più libero rispetto a chi vive nelle grandi città.

Paola 38 anni figlia unica, vive in casa dei genitori. E’ ancora studentessa di medicina perché non è riuscita ancora a laurearsi sebbene si trovi agli ultimi esami che riguardano quelli medico-clinici.

La donna racconta di aver vissuto una delusione amorosa dieci anni prima e da quel momento di essere entrata in depressione. Gli esami sono diventati sempre più lunghi e Paola mi parla di anatomia patologica per dirmi che il suo tempo lo ha perso per quell’esame. Si rende conto che alla sua età dovrebbe essersi  laureata e comunque avrebbe dovuto uscire di casa in virtù di una sua maturata indipendenza. Con l’andare delle sedute per lo più svolte con il telefono perché Paola preferiva non farsi vedere nel display, mi accorgo che la profonda svalutazione di Sé risulta essere fondamentalmente la causa della sua ignominia.

Se gli uomini non la guardano e non si innamorano di lei significa che lei è brutta e non desiderabile. Infatti a quanto lei dice,  è notevolmente sovra peso.

Dalla madre e dal padre sembrava che fosse sempre stata criticata e penalizzata  si da quando era piccola. Inoltre il padre pensava che gli studi di medicina erano inadatti per lei: avrebbe dovuto accontentarsi di una laurea più facile e più breve.  Paola invece desiderava diventare medico proprio per dar torto al padre e essere migliore della madre che appariva assai succube del marito. I colloqui svolti con lei in quel periodo di lockdown  hanno consentito un leggero miglioramento del tono dell’umore grazie all’ascolto delle ragioni di Paola che le impediscono una piccola fiducia e indipendenza.

Caso 4: Impotenza e depressione

Il senso di mancanza di libertà per un periodo di tempo protratto può causare sintomi depressivi in particolare influendo sull’impotenza negli anziani e in quella di bambini e adolescenti.

Negli anziani, specialmente pensionati ma ancora iattivi, si può verificare un senso di fine vita anticipata perché il vissuto prevalente è quello di essere entrati in tunnel che non vede mai il fondo luminoso. Poiché nell’anziano il senso della fine, per quanto tenuto il più possibile nell’ombra, è ugualmente presente alla coscienza, la mancanza di libertà nel muoversi fa riemergere i fantasmi: la costrizione è quindi vissuta come una sottrazione del tempo di vita e una accelerazione inaspettata verso la propria scomparsa.

Un signora Giulia di 78 anni durante i mesi del lockdown mi aveva chiesto di aiutarla perché era colta da sintomi di claustrofobia con grande angoscia e preoccupazione per la sua salute in generale.

Mi sento male perché non posso uscire di casa, io ho bisogno di muovermi, anche il dottore melo ha sempre prescritto. Non riesco a dormire, se non esco da casa e mi viene un’ansia incontenibile se mi sento bloccata. La notte se mi addormento lo faccio tardi alle 4 e poi debbo prendere pillole per dormire.

La signora sperimentava come se la chiusura forzata fosse paragonabile ad un tunnel molto lungo, un buio e opprimente non le permetteva di vedere la luce. In sostanza, non avrebbe potuto vivere come prima dell’ordinanza per lungo tempo: lei non avrebbe fatto in tempo a ritornare alle abitudini di prima perché nel frattempo sarebbe morta.

Le statistiche annunciano percentuali alte di aggravamento psichico e anche le farmacie rilevano elevate quantità di prescrizioni di psicofarmaci.

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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