Il nervosismo degli infermieri professionali

Il nervosismo degli infermieri professionali

Quel che sto per scrivere non ha il fine di mettere in cattiva luce il personale sanitario che apprezzo invece e con il quale mi sono identificato. Al contrario, desidero in generale sostenerlo.

Ho scritto già anni fa su Donna Moderna, in Dialogo con la psiche a proposito del burn-out, perché spesso il lavoro sanitario nei pubblici Ospedali è veramente assai faticoso, in specie durante certi turni durante i quali troppa gente, seppur a ragione richiede tanto impegno nel gestire il caos.

Sono stato ricoverato in day-hospital per un giorno dalla mattina alla sera, per un piccolo problema che ha richiesto appunto un piccolo intervento. Come previsto, verso la sera sono stato dimesso, come previsto.

Come noto, i ricoverati sono spesso accompagnati dai parenti che senza volere, occupano spazio nei corridori e camere dei degenti che essendo doloranti e disagiati, domandano qualcosa che riduca il loro fastidio: le infermiere aiutano nel caos i pazienti che spesso sentono il disagio molto forte. I pazienti chiedono al personale infermieristico, magari che si allunghi loro un oggetto che nella loro specifica e sacrificata posizione si sforzano a raggiungere, ma inutilmente. Poi ci sono le medicazioni delle lesioni, gli antibiotici da somministrare per via endovenosa o liquidi fisiologici o altri medicamenti nutritivi o antidolorifici che sono assorbiti dal paziente tramite fleboclisi. Le medicine e altro, debbono essere direttamente somministrate in vena e sono contenute appunto in flaconi che, tramite deflussori connessi a un catetere già assettato e predisposto in vena. La camera di gocciolamento, del contenitore della flebo (che ha lo scopo di impedire all’aria di entrare nel flusso per evitare emboli gassosi), spesso funziona male.

Le richieste alle infermiere o infermieri si moltiplicano a ogni minuto per intervenire ad aggiustare il gocciolamento. A volte lo scorrimento corre troppo velocemente, a volte si blocca.

L’infermieristica di turno è sempre troppo scarsa e i pochi devono affrettarsi a gestire le varie richieste. Osservando la situazione dal mio letto, ho notato che tutti gli infermieri si propongono di essere gentili con i pazienti verso i quali hanno un dovere di accoglienza, ma anche per loro predisposizione umana e professionale sanitaria, quella che li ha indirizzati a quel lavoro.

Ho avuto l’impressione che alcune infermiere si stressino psicologicamente, oltre che fisicamente, perché la richiesta continua, a volte insistente e impaziente delle persone ricoverate appare molto faticosa da reggere a lungo. In altre parole, ho visto che qualunque richiesta del paziente, dopo un po’ di ore di lavoro implica da parte del personale sanitario una reazione d’intolleranza, anche se la richiesta viene rivolta con gentilezza.

Questi segnali sono l’indice di un principio di burn-out cioè di sentire se stessi come personale infermieristico come bruciati, mangiati e esauriti.

Sono dunque convinto che il personale infermieristico in Italia in generale sia a un buon livello rispetto a tanti altri Paesi occidentali anche per gradevolezza nelle modalità di gestione.

Questo buon atteggiamento, sia professionale, sia relazionale, penso abbia un limite umano che dobbiamo comprendere e rispettare. Sappiamo che i pazienti ricoverati pretendano l’aiuto sempre e comunque e che questo, a volte, possa creare una reciproca sofferenza.

Penso che dobbiamo considerare che il burn-out che sembra più frequente negli Ospedali pubblici, che in altre Aziende, sia dovuto non solo al super lavoro, ma anche al senso del proprio lavoro che viene smarrito.

Il senso del lavoro professionale degli infermieri sarebbe a loro chiaro.

Si tratta di una professione di aiuto che può essere molto gratificante in se stessa. Se l’attività di scambio tra pazienti e infermieri fosse più serena e lineare, il personale sanitario potrebbe godere di maggior soddisfazioni compensatorie la loro fatica.

I medici in verità sono molto indaffarati nel correre da una parte all’altra dell’Ospedale per diverse funzioni, atti curativi, interventi chirurgici, burocrazia e non si può dire che in media si risparmino nel lavoro.

Forse una buona parte di loro trova maggior gratificazione nel senso della loro attività.

Le questioni economiche non sono oggetto di discussione in questo mio post: mi riferisco soltanto al riconoscimento del fatto psicologico che compensa i medici che percepiscono nel loro lavoro:

la gratitudine che sboccia prevalentemente dai loro pazienti, anche se non è esplicitata.

Il resto del personale forse non sente tale gratitudine se non raramente. I medici stessi invece sono i primi che riconoscono il valore dei propri collaboratori, ma i pazienti molto meno, perché sembrano meno grati al personale infermieristico. Questo non basta a renderli gioiosi di quel che fanno, di come operano nell’ambiente ospedaliero e per questo si manifesta a volte una certa arroganza.

In tal caso, ovviamente lavorare nel caos, in un mondo sempre richiedente ciò che manca, può far sentire come se tu non avessi mai riconoscimenti e poco avesse senso di quel che fanno.

 

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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E tu come la pensi? Scrivimi un commento o inviami una domanda all'indirizzo roberto.pani@unibo.it...

3 commenti

  1. Raffaella Buttazzi

    Come ho avuto occasione di sottolineare ho una amica infermiera, che, differenziando gli ambiti della propria attività, che ha scelto con passione da tempo, mi ha più volte confidato di sentirsi sollevata dalle molte richieste e diverse responsabilità.

    Mi chiedo quanto nel rapporto tra infermiere e ricoverato possano riflettersi emotivamente altre relazioni: tra le quali quelle familiari e la loro evoluzione?

    Ciò può avere incidenza sul burn-out del personale infermieristico, se non adeguatamente riconosciuto e compreso?

    Raffaella

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