Psicologia della pornostar: in ricordo di Moana Pozzi

Psicologia della pornostar: in ricordo di Moana Pozzi

Nulla a che fare con la prostituzione, nel senso che il denaro non è in genere l’unica motivazione che spinge una pornostar a scegliere quel mestiere.

Certo che ogni lavoro presuppone un riconoscimento economico compensativo per essere indipendente se non altro per sentire un proprio riconoscimento.

Un pittore che non può vendere nemmeno un quadro potrebbe dubitare della sua identità professionale.

Pensando a Moana Pozzi, la pornostar che nacque nel 1961 e morì a 33 anni nel 1994 di HIV, se crediamo a Paolo Villaggio che lo dischiarò a Piero Chiambretti dopo la confidenza della stessa Moana, ci troviamo di fronte a una donna misteriosa, molto religiosa e dotata di grande sensibilità.

Ebbe un’educazione coerente con la cultura familiare, ma con in cuore un desiderio di indipendenza dalla famiglia.

Nell’adolescenza viaggiò molto con la famiglia, Argentina, Brasile, ecc..

A 18 anni appena completato il liceo scientifico, era già a Roma.

Suonò la chitarra al Conservatorio. Provò a fare l’attrice, ma non le piacque, desiderava essere se stessa nel conquistare un posto di successo senza tanti compromessi.

Forse desiderava uscire dal perbenismo e ci provò grazie al suo bel corpo: alta, occhi verdi, raffinata e di buon gusto.

Forse desiderava scandalizzare la gente, la sua famiglia, timorosa di Dio, affermando che il sesso è naturale e che è la vera benedizione della vita.

Sembra che non partecipasse intimamente al piacere nei vari rapporti che avrebbe avuto con personaggi dello spettacolo e politici. D’altra parte come avrebbe potuto difendere la sua intimità partecipando con passione con tutti i fans?

Si divertiva a far la politica del sesso e sosteneva il sesso con la sua filosofia creando il partito dell’amore.

Banalmente alludendo anche: fate l’amore e non la guerra!

Moana Pozzi non desiderava invecchiare, odiava essere dipendente, evitava di nascondersi dietro l’ipocrisia, preferendo mostrarsi per quel che realmente cercava di sentirsi.

Penso che ci provasse a essere un personaggio sincero e coerente con la sua filosofia di libertà, ma che la sua vera natura fosse più condizionata dalla cultura del passato persecutorio dal perbenismo e che lo sforzo di essere libera le costasse non poco.

Non mi sembrava femminista, cercava un personaggio di donna forte originale che facesse del sesso il principio del piacere degli altri.

Disegnava con se stessa una donna libera come lo erano gli uomini: era a mio parere una donna molto femminile, ma che recitava molto bene la parte dell’uomo disinibito. Sembrava però una donna triste che giocava ad essere gioiosa.

Qualcuno l’aveva definita una maestra della finzione estrema.
Forse Moana aveva sconfitto in parte i pudori dell’Italia bigotta, era diventata un volto familiare, dolce, che non sembrava una pornostar se non per le parti anatomiche che richiamavano la sessualità.

Ma il sesso era mischiato alla tenerezza, alla delicatezza, alla raffinatezza, all’ingenuità che ha regalato agli altri e poco a stessa.

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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