Vi spiego come si cura coloro che partecipano allo psicodramma psicoanalitico

Alcune persone che sentono parlare di psicodramma psicoanalitico immaginano o lo psicodramma con il teatrodrammatico e lo confondono con quello psicoanalitico, oppure questa parola suona come una messa in scena esibita e o come espressione ironica per una scenetta di un litigio espresso in modo esagerato. E’ come se questa i protagonisti di un litigio rendano più drammatico qualcosa che non lo sarebbe in realtà creando un rituale tanto inutile e sterile quanto provocatorio un atteggiamento di odore isterico ed di esibizione. Lo psicodramma in effetti nasce in teatro e nell’antica Grecia e alla fine dell’800 Jacob Moreno allevo di Freud all’Università di Vienna tentando un metodo teatrale, popolare, applicato a grandi gruppi sociali lungo le strade e piazze e chiamato catartico liberatorio dalle angosce della gente povera e diseredata. Solo negli anni 40 a Parigi Jeni e Louis Lemoine insieme ad altri psicoanalisti come Didier Anzieu e M. Mascovice allievi di J. Lacan inventarono un metodo che prevedeva un piccolo gruppo e che usasse lo psicodramma con fini psicoanalitici e  con scopi eleborativi centrato su difficoltà psicologiche personali dei partecipanti.

Non si tratta quindi di teatro, né di catarsi, come intendevano gli antichi greci, cioè di semplice sfogo liberatorio di ciò che opprimeva l’anima, cioè il mondo interiore che spesso è invaso da fantasmi inconsci.

Il mondo interiore, i sentimenti e le emozioni non andrebbero espulse tanto meno negate, ma espresse nel contesto opportuno, utilizzate per conoscersi meglio per ampliare la propria immaginazione e i propri punti di vista. Lo psicodramma psicoanalitico favorisce la digeribilità delle esperienze indigeste: occorre, infatti, lo scopo clinico consiste nel diventare sufficientemente padroni di noi stessi per amministrare la nostra libertà e potenzialità delle nostre azioni. Riconoscere gli  autentici desideri e non solo bisogni urgenti del momento, a volte residui adolescenziali per diventare protagonisti delle nostra vita come intendeva Sigmund Freud.

Si tratta dunque in primo luogo, di una psicoterapia su un piccolo gruppo (otto o dieci persone) che si svolgeva lungo un’ora e mezzo di tempo, una, o due volte la settimana, spesso, durante le ore serali.

Lo spazio tecnico necessario consiste una stanza di media grandezza. Le sedie disposte a cerchio, e poste aderenti alle pareti consentono di mantenere al centro uno spazio vuoto che servirà da piccolo palcoscenico.

In questo spazio tanto concreto quanto simbolico, alcune azioni, sollecitate da emozioni spontanee dei vari partecipanti, sono espresse secondo un racconto che diventa copione e che è proposto da un partecipante scelto dallo steso psicoanalista. La scelta dipende da ciò che chi conduce intercetta come tema profondo di cui il gruppo inconsciamente sta parlando nelle libere associazioni verbalizzate e quindi vivendole in modo latente.  C’è allora l’opportunità di rappresentare un tema psichico importante e utile a tutti i partecipanti. A questi non viene chiesto di preoccuparsi di essere intellettuali o intelligenti, nell’esporre ciò che viene in mente, o troppo descrittivi o scrupolosi nel raccontare se stessi. Più ci si avvicina all’idea di un raccontare un sogno o un episodio che è rimasto nel rastrello della mente, meglio è!

Allora i più del gruppo raccontano qualcosa di sé e tutti tendono ad ascoltarsi l’un l’altro.

Il mondo psichico si muove nella stanza del gruppo e le associazioni mentali si moltiplicano e possono lentamente essere comunicate, senza troppa inibizione ed vergogna. La fiducia, sia nel gruppo, sia in se stessi aiuta a svelare quel che a volte non si riconosce nemmeno in se stessi.

Certi esempi narrati quindi possono essere giocati in brevi scenette,  quelli cioè che mettono in scena e mostrano i sentimenti e le emozioni degli stessi partecipanti e che sono estratte da scene accadute in periodi remoti della loro vita o replicate in situazioni più attuali.

Lo psicoanalista principalmente ascolta e guida e fa domande, rende manifeste a tutti i singoli alcune sue intuizioni, anche allo scopo di far risaltare certe specifiche dinamiche che diventeranno percepibili agli altri del gruppo istantaneamente o con il tempo che trascorre.

In questo modo, il pensiero che scorre diventa nutritivo e creativo di fantasie e immagini.

A questo punto, quando ciascuno che ha narrato qualcosa di sè, forse dopo aver ricevuto qualche stimolo, succede che aspetti psicologici sottostanti si muovano all’interno del gruppo.  Giocare un episodio significa portare il proprio corpo dentro lo spazio vuoto del cerchio costruito dal gruppo in cerchio che è a quel punto osservante la scena giocata e in ascolto, di chi si sta esponendo. La funzione del gruppo a questo punto è di aiuto protettivo e solidale con chi gioca,

Chi sta giocando una scena sente di essere protagonista con il proprio corpo e viso cosicché  inevitabilmente già invia messaggi, sia verbali sia mimici . Si entra nel proprio ruolo e poi anche in quello degli altri che partecipano alla scena.

La continua identificazione che porta all’immedesimazione con persone diverse risulta essere di grande aiuto nel potenziare l’empatia, la capacità di comprendere se stessi e poi anche gli altri, e con il tempo a contattare quella parti di sé che sono rimosse e fanno spesso tanto soffrire.

 

Nel gioco delle scenette bisogna recitare come in teatro?  Se si ascoltano i propri sentimenti durante l’identificazione, sia panni di se stesso, sia degli altri seguire, suggerirei di sentirsi di recitare con passione perché si diventa portatori delle emozioni autentiche della spontaneità. I sentimenti vanno in scena.

 Il copione è quello raccontato da chi che è stato scelto, o anche da qualcun’ altro, per da un esempio di un evento o un sogno rappresentabile .Il gioco che ora si svolge ha come fine: ascoltare e agire cioè mettere in atto spontaneamente quel che si sente in se stessi e si chiama: role-playing

Quando si interpreta i panni di un altro presente nel gioco–scenetta si chiama reverse-playing.  Il fine è sempre quello di potenziare la propria capacità identificativa, i propri i sentimenti e il proprio  punto di vista e poi anche dell’altro e degli altri.

Gli altri partecipanti infatti s’identificano pure con gli attori che giocano e, intuitivamente possono scoprire di avere molto in comune: proprio alcune tra le stesse dinamiche anche appartenenti al passato; ma questo che accade lì e ora si trasforma in qualcosa di utile per tutti.

Questi ultimi sono spesso presi da desiderio di doppiare i giocatori dello psicodramma in un attimo proprio quando stanno giocando una scenetta. Doppiare significa aggiungere qualche frase, con voce delicatamente differita dal discorso del copione già in atto, quasi suggerire usando una voce alternativa per arricchire i giocatori di quel che non sentono o non vedono. Si tratta di fornire un aiuto che aggiunge e allarga altri vissuti possibili ignorati dal giocatore o attore che puòaprire nuovi punti di vista, altresì potenzialmente già in lui, aggiungendo al proprio Sé altre voci di interlocutori inconsci . Tali voci parlano già nel nostro mondo interno ma noi noi non le riconosciamo perché sono fuse nel nostro vissuto delle cose, e ancora non le distinguiamo e le sentiamo. Tutto ciò porta a una maggiore coscienza di noi stessi e di sentirci più uniti e protagonisti della nostra vita.

Ciascun singolo, uno per volta, può rapidamente situarsi alle spalle del giocatore scelto, senza interrompere il discorso in atto dei giocatori (a volte più di due) che stanno sullo spazio del palcoscenico.

A questo punto avviene il reverse playing con il quale a volte si comincia, per convenienza tecnica, e che consiste nell’invertire da parte dei giocatori la propria posizione mettendosi e interpretando l’altro, avendo imparato ancora meglio la parte dell’altro, avendo, precedentemente, già  giocato il role-playing. Altre fantasie osservazioni ottenute dal movimento del corpo, dalle sue varie espressioni emotive di varie comunicazioni diventano visibili.

Gli interlocutori interiori che noi non conosciamo ancora, appaiono presenti e a fuoco, le voci che ci parlano dentro sono ora conciliabili con l’Ego di noi stessi e il Self diventa più ricco.

Vi ho descritto in generale, lo psicodramma analitico che è una la psicoterapia psicoanalitica che individualmente si svolge in modo diverso, ma con gli stessi fini. La tecnica psicodrammatica, inoltre può essere anche usata per sistemare con maggior chiarezza conflitti istituzionali o privati, educativi, dove lo scambio è frainteso. Cito esperienze con gruppi di giudici del tribunale e cancellieri, cliniche con primari medici e infermieri. Aziende con conflitto del personale possono esser aiutati a sciogliere la confusione.  La comunicazione in questi casi perde la sua asimmetria e quindi diventa conflittuale perché il potere non sta solo da una parte anche se spesso è dominato inconsapevolmente da forze inconsce cioè da interlocutori persecutori che condizionano l’Ego inconsapevole e fragile.

Roberto Pani
Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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